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05 Mar

Scrivere – A proposito di scrittrici

On: Rivista Scrivere, Scrivere vol. 3

“La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

 

A proposito di scrittrici – Scrivere

Anni fa, una laureanda in lettere che preparava una tesi sulle attuali scrittrici triestine di narrativa, mi sottopose un questionario. E una delle domande era se ritenevo che esistesse una scrittura “al femminile”, intesa come un insieme di specificità che la denotino, pregandomi di motivare la risposta. E la stessa domanda me la sono sentita rivolgere in diverse occasioni, e il tema l’ho sentito discutere in convegni letterari e ne ho letto su articoli e saggi. Segno che la questione è dibattuta e che interessa. Ma non ho mai sentito nessuno domandare se esista una “scrittura al maschile”, e già questo la dice lunga. Non si domanda qualcosa che è scontato, che è ovvio: che si dà per certo. Perché la scrittura – e in termini più ampi la letteratura – è nata maschile: come l’arte, la musica e ogni altra manifestazione della creatività e del pensiero umani. E se fino a ieri un certo Benedetto Croce riconosceva con sicurezza la “femminilità” nella scrittura delle donne, il suo, più che un apprezzamento, era piuttosto la denuncia di un limite. Di una scrittura di serie B.
Nella bozza della sua tesi, che mi diede da leggere, la laureanda introduce il tema con una frase di una scrittrice francese, George Sand, che oggi conosciamo più per la sua vita trasgressiva egli amori con uomini famosi che per i libri che ha scritti. Dice dunque George Sand: “Ho sempre amato un uomo più dei miei libri, ho sempre amato i miei figli più di quell’uomo. Sono così dunque tutte le scrittrici? Quando ci si dedica a un’arte per eccellere, bisognerebbe mettere quest’arte al di sopra di ogni altra cosa e tutto sacrificarle. Ma nessuna donna, immagino, è capace di tanto”. E un’altra scrittrice, a noi più vicina nel tempo, Simone de Beauvoir, nel suo libro-saggio Il secondo sesso, porta a esempio dell’egemonia maschile in tutti i campi – compreso quello letterario – quei veri archetipi del pensiero che sono i miti e le religioni. Le dee della mitologia, scrive, sono “frivole e capricciose, e tutte tremano davanti a Zeus”, nelle religioni occidentali Dio è “padre”, ed è raffigurato con una fluente barba bianca, uomo è il Cristo dei cristiani, uomini sono i suoi dodici apostoli. Le donne vi appaiono sottomesse: la Vergine Maria riceve in ginocchio l’annuncio dell’angelo e risponde “sono l’ancella del Signore”, Maria Maddalena si inginocchia ai piedi del Cristo e glieli asciuga coi suoi lunghi capelli. La superiorità maschile, continua l’autrice, è enorme: Perseo, Ercole, Davide, Achille, Lancillotto, Parsifal… “Quanti uomini, per una Giovanna D’Arco”, commenta un po’ ironica e un po’ amara. E allora si comprende il senso di disagio e di inadeguatezza che traspaiono dalle parole di George Sand, che aveva osato invadere un terreno finora riservato agli uomini scrivendo, e pubblicando, quando alle donne era concesso tutt’al più di tenere un diario e di scrivere lettere. “Sii seducente e taci” tagliava corto Baudelaire in quegli stessi anni.
È avvenuto così che per secoli la scrittura delle donne si è svolta per lo più tra le mura domestiche, al chiuso: diari appunto, e lettere, o frammenti di scritti a dar sfogo a un mondo interiore che altrimenti non trovava sbocco. E se qualche voce isolata emergeva dal silenzio, veniva accusata di tradire la propria natura e il proprio ruolo. E il ruolo che per secoli la società egemonizzata dagli uomini ha attribuito alle donne, è stato quello delle cure parentali e domestiche: di “Angelo del focolare”, di “Regina della casa”; o, nel campo opposto, di “cortigiana”, se donna di alto rango, di “meretrice” se di basso: o prostituta, puttana, sgualdrina, squillo… tutti termini che, guarda caso, non trovano un corrispettivo maschile. Eppure le donne hanno sempre avuto legami molto stretti con la letteratura: da lettrici appassionate, da muse ispiratrici, da narratrici: le fiabe ai bambini, le letture al capezzale dei malati, dei vecchi… E nei ceti più colti erano loro a “tenere salotto”, e questo ospitava spesso artisti e letterati, e vi si parlava di letteratura e di arte. Eppure loro, alla letteratura come autrici pubbliche, sono arrivate tardi. Salvo, appunto, quelle poche sporadiche voci.
A quando risale questo “tardi”? Il primo grande fiorire di scrittrici – “le madri storiche” – lo vediamo nascere grossomodo a partire dalla Rivoluzione francese e lungo l’arco della Rivoluzione industriale, cioè più o meno dalla fine del ’700 fino a circa metà ’800. E non è un caso. Con le lotte e il progressivo riconoscimento dei diritti individuali e di classi sociali finora sfruttate subalterne, anche le donne – subalterne da sempre – cominciano a mobilitarsi. E c’è la Dichiarazione dei Diritti delle Donne di Olympe de Gouges in piena Rivoluzione francese, contemporanea alla Rivendicazione dei Diritti delle Donne dell’inglese Mary Wollstonecraft, e a metà Ottocento l’americana Margaret Fuller scrive il libro proto femminista La donna nel XIX secolo. Eccone una frase significativa: “Come l’amico del negro dà per scontato che nessun essere umano ha diritto di tenerne un altro in schiavitù, così l’amico della donna dovrebbe dare per scontato che l’uomo non ha diritto di imporre, sia pure in buona fede, delle restrizioni alla donna”. E la nascita di una nuova classe sociale, la borghesia, produce nuovi stili di vita e nuovi bisogni. E una nuova letteratura; per cui non è un caso che quelle “madri storiche” nascano proprio nell’area geografica compresa tra Francia, Inghilterra e Nord America. Ma nonostante queste conquiste, per loro l’inizio non è facile, e la strada, non dico per ottenere una considerazione pari a quella dei colleghi uomini, ma almeno un pieno riconoscimento del loro buon diritto è ancora lunga. “Fate bambini, non libri” si sente dire la già citata George Sand, che in polemica col suo tempo, oltre che scegliersi per pseudonimo un nome da uomo – in realtà si chiamava Aurore Dupin – da uomo pure si veste. E in Inghilterra c’è un altro “George” sotto cui si cela una scrittrice,George Eliot, alias Marian Evans. E Charlotte Brontë, più o meno negli stessi anni così scrive a un suo critico: “Vorrei che lei non mi considerasse come donna, [altrimenti] continuerà a giudicarmi secondo un metro che crede consono al mio sesso. Là dove non sarò ciò che lei considera aggraziato, mi condannerà”. E una certa Jane Austen anni prima pubblicava splendidi romanzi con la dicitura “by a Lady” senza firmarsi…
Coscienza di compiere una radicale rottura delle regole sociali e il conseguente timore di non essere prese sul serio, di essere considerate velleitarie o, ben che vada, scrittrici di una letteratura marginale? Sembrerebbe di sì, se novant’anni dopo la stessa dolorosa coscienza la ritroviamo in Virginia Woolf, che al tema “donne e letteratura” ha dedicato molte riflessioni e saggi tra cui il celebre Una stanza tutta per sé, ancora oggi fondamentale. Eccone uno stralcio: “Immaginiamo che cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judit – diciamo. Molto probabilmente lui studiò nella grammar school. […] Si interessava, a quanto pare, di teatro. Era un ragazzo irrequieto, e andò a cercare fortuna a Londra. Presto cominciò a recitare, divenne un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti, conosceva tutti, riuscì perfino a essere ricevuto nel palazzo della regina. Intanto sua sorella, così dotata, supponiamo, rimaneva in casa. Ella non era meno avventurosa del fratello, e altrettanto desiderosa di conoscere il mondo. Ma non aveva studiato. […] A volte prendeva un libro, ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze e di non perder tempo tra i libri. Ed era stata promessa, non appena arrivata alla pubertà, al figlio di un vicino mercante di lane. […] Una sera d’estate Judit fece fagotto delle sue cose, scese dalla finestra e prese la strada per Londra. Non aveva ancora 17 anni. […] Ella possedeva, come suo fratello, la più viva fantasia, il più vivo senso della musica e delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro. Bussò alla porta degli attori: voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. Nessuna donna, dissero, poteva essere attrice. Essi accennarono invece… ve lo potete immaginare. […] Si uccise, una notte d’inverno, e venne sepolta a un incrocio, là, dove ora si fermano gli autobus”. E trent’anni dopo la nostra Natalia Ginzburg, in uno dei racconti autobiografici, Il mio mestiere, che compongono il suo libro Le piccole virtù, scrive: “[…] E poi mi sono nati dei figli e io sul principio quando erano molto piccoli non riuscivo a capire come si facesse a scrivere avendo dei figli. Non capivo come avrei fatto a separarmi da loro per inseguire un tale in un racconto. M’ero messa a disprezzare il mio mestiere. Ne avevo una disperata nostalgia ogni tanto,mi sentivo in esilio, ma mi sforzavo di disprezzarlo e di deriderlo per occuparmi solo dei bambini”.
Ecco. La vita familiare, i moti dell’animo, i sentimenti, i figli: temi ricorrenti in tante opere di scrittrici, spesso con splendidi risultati.
Sta qui, allora, in questi temi vissuti e sofferti, che possiamo trovare la “specificità” della scrittura femminile? Esiste davvero un segreto filo di Arianna che lega opere quali ad esempio La piccola Fadette a Jane Eyre, Il mulino sulla Floss a Gita al faro, Orgoglio e pregiudizio a Lessico familiare? Possono, le donne che hanno scritto e che scrivono essere considerate come un “corpus”, un insieme oggettivo di dati a cui dare il valore, appunto, di “insieme”? “Chi vuole studiarle – scrive Elisabetta Rasy nel suo libro Le donne e la letteratura – “compirà una ricerca che ha più i caratteri avventurosi di una spedizione archeologica che non quelli di una sicura critica filologica”. E il motivo sta proprio nell’enorme diversità – di stile, di contenuti, di sensibilità, di linguaggio, di contesto e quant’altro – che queste opere presentano. Una diversità vasta quanto lo è l’universo sociale e storico in cui la letteratura tout court si è manifestata e si manifesta, vasta quanto il numero di autori – e di autrici – che l’hanno prodotta e che continuano a produrre. Ma, avverte Flavia Weisghizzi nel suo saggio La mancanza di un canone di scrittura femminile in Occidente, a differenza di quella maschile “la scrittura femminile si affaccia nel mondo appena nata, priva di tradizione, priva della possibilità di confrontarsi con se stessa, di fare tesoro dell’esperienza delle altre”, per cui le manca quel “valore di precedente” che troviamo invece nella scrittura maschile, di modo che – cito ancora – “in una ipotetica linea che collegasse l’opera omnia della scrittura europea, il primo e l’ultimo autore si troverebbero legati da un concetto evolutivo che è andato di pari passo con i cambiamenti materiali e spirituali dell’uomo”.
Di tentativi di trovare questa “linea”, peraltro, quel segreto “filo di Arianna”, ce ne sono stati e ce ne sono ancora. Mi riferisco ai gruppi di studiose femministe di letteratura, francesi e soprattutto americane, che, a partire dai movimenti del ’68 hanno cercato di ridisegnare una mappa dell’universo letterario femminile con canoni nuovi. E anche se i loro studi hanno molti meriti – tra cui quello di aver messo in luce autrici appartenenti a culture finora considerate marginali – non sembrano portare a conclusioni univoche.
E in Italia, a che punto siamo? Se si leggono gli atti di un convegno sulle scrittrici italiane tenutosi anni fa a Rapallo in occasione del decennale del Premio – premio nato per promuovere, appunto, la scrittura femminile – viene fuori che oggi il numero di scrittrici di narrativa è sensibilmente aumentato, ma non altrettanto quello che attiene alla saggistica e alla critica. E se è sensibilmente aumentato pure il numero di scrittrici che vincono premi prestigiosi, non possiamo dimenticare che lo Strega, vale a dire il premio italiano più importante, ci ha messo 13 anni prima di premiare una donna, e quella donna era Elsa Morante…
Prima di chiudere vorrei fare due brevi considerazioni su quella letteratura di consumo che è il genere “rosa”, cioè su quei libri rivolti a un pubblico femminile, scritti peraltro anche da uomini. La prima, è che non c’è un corrispettivo altrettanto dichiaratamente “maschile”.Certo, ci sono i libri di avventure: i libri “per ragazzi”, e i gialli “proibiti”: “hard”, o quelli genericamente indicati “per soli adulti”… Ma sono letti anche da ragazze e da donne, mentre non ho mai sentito un uomo ammettere – o confessare – di leggere romanzi “rosa”, se non da studioso. La seconda considerazione, ancora più sorprendente, è che questi libri, anche quelli scritti da donne, mettono in scena stereotipi e “valori” prettamente maschili. Ecco cosa ne scrive Elisabetta Rasy in quel suo saggio già citato: “Il rapporto uomo/donna passa per l’educazione: l’uomo spesso è il tutore, la donna un essere tenacemente infantile. Come in un calco fossile possiamo rintracciare in queste opere una immagine abbastanza costante della figura e della funzione femminile. Romanzi interscambiabili, fatti di una scrittura ripetitiva, eseguita per una lettura sempre uguale a se stessa”. Libri facili, quindi, confezionati per un pubblico ingenuo. Dove il lieto-fine è un’altra costante, che consola e fa sognare.
Oggi, alle soglie del secondo decennio del nuovo secolo, quando alla presidenza degli Stati Uniti d’America, cioè della nazione più potente al mondo, per la prima volta c’è stato un presidente nero, e per la prima volta a quella carica vi ha concorso una donna, mi piace ricordare un antico epitaffio latino. Lo pose il marito sulla tomba della moglie 19 secoli fa, e lo traduco: “Amico, non è molto quello che ho da dirti, ma fermati e leggi. Questo è il modesto sepolcro di una donna bella. I genitori le diedero il nome di Claudia. Amò suo marito, con tutto il cuore. Allevò due figli. Sapeva conversare piacevolmente, camminava con grazia. Lavorò la lana e custodì la casa. Questo è tutto. Puoi andare”. Il che mostra quanta strada sia stata fatta dalle donne – grazie anche all’impegno di tanti uomini illuminati – nella conquista della parità di genere e nel riconoscimento di meriti e valori individuali.
Ma solo quando non si ragionerà più per blocchi contrapposti – bianco/nero, uomo/donna, maschile/femminile e così via – solo quando l’istituzione di “quote rosa” in politica sarà superflua, e peregrina la domanda se esista in letteratura una “scrittura femminile”, in quanto ormai consapevoli che non esistono due “metà del cielo” ma che il cielo è uno, solo allora si potrà dire che quella lunga strada sarà giunta alla meta. E questa mia convinzione è anche la mia risposta.

Giuliana Iaschi

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